Trofeo Monga

C’è poco da dire se vogliamo parlare del “Trofeo E. Monga”, perché molti di noi l’hanno corso, altri organizzato, tutte le Società Amatori in varia misura partecipato. Altro è parlare di Emilio Monga. Ci provo, raccontando quello che io conosco di lui sicuro che altri la sanno più lunga (non l’ho conosciuto di persona).

Però, prima di parlare di Emilio voglio citare due persone che l’hanno conosciuto e particolarmente influito sul suo ricordo: Manfredi Tretola, sicuro dirigente e forse fondatore della gloriosa e popolare US Acli, terun importato nella Milano aperta degli anni settanta (come importato era il polentone Emilio), e Antonio Balducci, democratico rais di Zeloforamagno e del suo gruppo sportivo, romagnolo d’origine, naturalmente e geograficamente incline al dialogo ed alle porte aperte. E’ in questa umanità che la vita di Emilio si conclude. Ma andiamo con ordine.

Valcavargna. Una valle che dai rilievi che collegano il Lago di Como a quello di Porlezza si inoltra verso il confine svizzero fino a delimitarlo nella sua parte più alta. In uno dei paesini che la popolano nasce Emilio nel 1934. Nasce non “regolare”, nel senso “fuori dal matrimonio”. Colpa grave anche per lui che non ne ha alcuna, accentuata dall’ambiente montano, arcaico e duro, in cui avviene il “misfatto”.
Personalmente  non posso ritenere Emilio figlio della colpa, bensì figlio dell’amore, altrimenti non riuscirei a spiegarmi e a raccontare la tranche milanese della sua vita, accanitamente improntata ad un concedersi al prossimo senza riserve, lui che dal prossimo, anche il più vicino, ha preso un bel po’ di legnate e non solo metaforiche. Le “ramazzate” erano all’ordine del giorno (e per “quei” ragazzi anche di più) e sovente, la colpa la scontava chiuso nel pollaio, che certamente non era quello che i nostri figli vedono nei cartoni animati di Nonna Papera. Componenti essenziali della sua crescita psicofisica: fette di polenta calda a quintali e altrettanta fredda malcelata indifferenza….
Alcuni anni fa, il gruppo di Zelo organizzò per alcuni inverni una gita-pellegrinaggio al paese natio di Emilio dove è sepolto, con corsa a piedi finale (poteva mai mancare?) e negli anni a seguire anche una staffetta in partenza da Milano. In quelle occasioni di visita, ti rendevi conto che la gioventù di Emilio non doveva essere stata delle più facili. Era passato mezzo secolo, la gente era più acculturata, più civile, più educata, più tutto, ma faticava a comprendere perché un cospicuo numero di estranei si prendeva la briga di ricordare uno di loro che nel profondo dei loro pensieri ancora non ritenevano normale, forse, ancora colpevole… Qual era il motivo, che cosa aveva fatto Emilio per meritarsi questa riconoscenza? 
Emigra a Milano e trova lavoro nella grande industria, si appassiona e diverte giocando all’atletica, si toglie anche qualche sfizio agonistico. Questo appaga i suoi muscoli ma lui ha bisogno di altro. Fa il corso allenatori e poi si butta con il cuore verso i piccoli, i giovani , in un modo che nessuno gli ha insegnato, che non trovi scritto in nessun manuale. Forse, semplicemente, attraverso la pratica sportiva vuol dare ai piccoli quello che lui da piccolo non ha mai avuto: una carezza, un sorriso, un bravo. Senza nulla pretendere, neppure sotto l’aspetto gratificante del “risultato”.

In una società metropolitana che incomincia a degradarsi – siamo nel 1981 - lui ha il coraggio di fare ciò che sente dover fare. La stessa indifferenza che lo ha segnato da piccolo, lo persegue anche da adulto fino alle estreme conseguenze: una sera, in allenamento sulla Paullese, una macchina inesorabilmente lo falcia. Una macchina pirata, si dice. Diciamo invece una macchina indifferente. Di pirati ce ne son pochi quindi la società si chiama fuori. Di indifferenti molti, quindi gran parte di questa società non può chiamarsi fuori…..

La storia di Emilio è tutta qui. Una vittima normale e degli amici che, normalmente, lo ricordano. L’anormalità è tutta fuori da questa vicenda.

Alcune categorie umane onorano i propri morti allungando all’infinito la catena di disperazione con altre morti, altre vestendoli con sputtanate divise, altre con bandiere cariche di sangue. Però, sempre benedette dalla religione di riferimento. Noi, li onoriamo divertendoci con sudore e fatica nel freddo di una campagna invernale. Semplici, normali e primitivi pagani del terzo millennio. Benedetti da nessuno.

Un dirigente del Montestella